Il riconoscimento del diritto del cittadino alla totale trasparenza del pubblico governare è percorso lento e tortuoso: prende le mosse dalla L. 241/90 (dove la trasparenza è requisito dell’azione amministrativa), passa dalla L. 150/2000 (che la assume a principale attività di comunicazione istituzionale), approda nel D. Lgs. 82/2005 (che la eleva a pilastro dell'Amministrazione Digitale), poi nella L. 69/2009 (da cui il principio della pubblicità legale sui siti web) e, ancora, nel D. Lgs. 150/2009 (che dà corpo al principio del controllo sociale dell'operato pubblico).
Infine, con il D. Lgs. n. 33/2013, la trasparenza dell’agire amministrativo trova una collocazione ancora diversa: il decreto incide sulle molteplici normative attorno alle quali essa ruota più o meno marcatamente; affronta, per la prima volta in modo sistemico, i concetti di trasparenza, pubblicità e diffusione e delinea (anche grazie alle successive direttive e Linee Guida ANAC), un vero e proprio processo - con organi, competenze, strumenti di programmazione e rendicontazione e organismi vigilanza - diretto a garantire la conoscibilità di una moltitudine di dati, documenti e informazioni.
Il travagliato percorso si completa ora con la recente riforma operata dal D. Lgs. n. 97/2016 che innova profondamente la precedente disciplina, a partire dalla concezione stessa del principio di trasparenza, eliminando anzitutto l’anomalia che l'aveva costretto al (solo) ambito della prevenzione della corruzione e riportandone invece la funzione nello specifico alveo dell'Amministrazione digitale.
Se è vero che la total disclosure introdotta con il D. lgs. 150/2009 realizza un passaggio storico verso un nuovo approccio favorevole a quel controllo generalizzato sull’operato pubblico che l’art. 24 c. 3 L. 241/90 aveva - fino ad allora
- espressamente impedito, è pur vero che alle enfatiche enunciazioni di principio (accessibilità totale in primis), non sono seguiti effettivi meccanismi di enforcement: e così, frammentarietà e ridondanza della normativa - da un lato - elevato tasso di inosservanza degli obblighi - dall’altro - hanno sostanzialmente portato al fallimento dell’architettura giuridica introdotta.
L’impostazione del D. Lgs. 33/2013, basato sulla staticità e su una notevole quantità di obblighi di pubblicazione, senza diversificarne situazioni e modalità di attuazione - anche con riguardo alle competenze e alla dimensione organizzativa degli enti - ha poi reso evidente la difficoltà a cui molti enti pubblici sarebbero incorsi nell'attuare concretamente la normativa, tanto da far parlare qualche autore, di “propensione del legislatore a scaricare su amministrazioni non attrezzate compiti di pianificazione, vigilanza e attuazione molto gravosi, imputando loro la responsabilità di eventuali inadempimenti” .
La disciplina del 2013 ha certamente innovato la materia con l'introduzione dell'“accesso civico”: istituto con cui si è inteso superare l’architettura giuridica del diritto di accesso agli atti ex L. 241/90, ma che assume ancora una funzione piuttosto limitata: il diritto di accesso del 2013 è infatti circoscritto ai soli documenti, dati e informazioni oggetto di specifico obbligo di pubblicazione e - soprattutto - non si configura come diritto autonomo: il punto di partenza del d. lgs. n. 33/2013 - prima della novella - non è il “right to know” del privato, ma l’obbligo dell’amministrazione, che costituisce anche il limite del diritto alla conoscenza: la sua è infatti una funzione prevalentemente sanzionatoria nei confronti della pubblica amministrazione inadempiente.
Il percorso verso il FOIA italiano
L’ulteriore evoluzione del modello di trasparenza amministrativa italiana è segnata ora dal Decreto legislativo n. 97/2016 adottato in attuazione della legge delega 7 agosto 2015, n. 124 (cd. legge Madia): un decreto che, nella sua prima stesura, non aveva ricevuto il sostegno del mondo giuridico e dell’associazionismo nato attorno ai temi della trasparenza amministrativa e del FOIA (che con lo schema di decreto si dichiarava voler istituire) e per questo, anche a seguito delle sollecitazioni provenienti dalla società civile (ricordiamo, per tutti, l’iniziativa Foia4italy), è stato oggetto di successivi ripensamenti, in ottica FOIA, con l’obiettivo di garantire un vero e proprio “diritto a conoscere” nei confronti delle istituzioni.
Se le direttrici che hanno ispirato la riforma sono risultate fin da subito pienamente condivisibili stante la “riconsiderazione, alla luce del duplice prisma dell’innovazione tecnologica e della trasparenza, delle politiche di semplificazione, già centrali nelle riforme amministrative dello scorso secolo ma mai sinora pienamente soddisfacenti”, l'analisi più puntuale della nuova disciplina pone invece il fianco ad alcune critiche.
Certamente positivo è risultato essere il concetto di accessibilità totale che, in linea con la legge delega, supera ora i confini delle “informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività” per estendersi a tutti i “dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni” (In senso contrario, v. parere del Garante Privacy sullo schema di decreto che evidenzia come l’accessibilità non possa definirsi “totale”).
Anche il fine perseguito viene rivisitato e ampliato per essere allineato ai fini tipici del FOIA dei paesi anglosassoni: accountability, partecipation e legitimacy.
In tale ottica, la trasparenza/accessibilità totale è infatti ora volta a:
- tutelare i diritti dei cittadini
- promuovere la partecipazione degli interessati all'attività amministrativa
- favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche.
A ciò consegue la libertà “di chiunque ad accedere ai dati e documenti detenuti dalle PA” anche “ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione”: la nuova legge riassesta così il tiro rispetto alla disciplina del 2013: lo scopo, ora, non è più quello di ottenere la pubblicazione - omessa - di dati e documenti, bensì quello di garantire la generale libertà di accesso ai dati e documenti detenuti dall’amministrazione e viene realizzato – in primis - attraverso l’accesso civico ai dati e ai documenti (salvo i “limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti”) e, solo in subordine, attraverso l’imposizione degli obblighi di pubblicazione.
Ma v’è di più.
Con la modifica apportata all’art. 3 del d. lgs. n. 33, il legislatore del 2016 estende il diritto alla conoscibilità e diritto al riuso a tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di accesso civico.
Il cambio di prospettiva è netto: viene ora rovesciato quel rapporto (obbligo di pubblicazione/diritto di accedere a dati e documenti) che caratterizzava la disciplina del 2013 e la contrapponeva ai modelli propri del FOIA; e viene altresì generalizzato il diritto alla fruizione gratuita, all’utilizzo e riutilizzo (prima circoscritto a ciò che era oggetto di pubblicazione sui siti istituzionale) e l’istituto dell’accesso civico assume una ben diversa configurazione.
Con il (nuovo) comma 2 dell’art. 5 d.lgs. 33/2013, l'istituto dell'accesso civico - non più inteso come sanzione per la mancata osservanza degli obblighi di trasparenza - viene delineato quale vero e proprio diritto del cittadino ad accedere - prescindendo da qualsiasi valutazione inerente la legittimazione attiva – a tutti i dati, documenti e informazioni in possesso della PA (anche al di fuori degli obblighi di pubblicazione), seppur nel rispetto dei limiti normativi previsti.
La nuova formulazione dell'art. 5 2^ comma, rende così evidente il cambiamento di prospettiva operato dal legislatore, che riconosce ora all'accesso civico la portata di un diritto azionabile da ogni singolo cittadino senza necessità di motivare l’istanza né provare il rapporto intercorrente tra esigenze del singolo e atto che si chiede di conoscere.
Inoltre, tale diritto, riguarda la conoscenza di tutti i dati e documenti in possesso della PA fatti salvi i casi di esclusione previsti ex lege, come già accade nei sistemi di common law che disciplinano il FOIA.
Accesso civico e tutela dei dati personali: la ricerca di un bilanciamento
Il nuovo art. 5 bis nel prevedere una serie di limiti e cause di esclusione, statuisce che il diritto di accesso civico non è illimitato. E da più parti è stata espressa la preoccupazione – ad iniziare dal Consiglio di Stato - di come ampiezza e scarsa puntualità della lista di eccezioni e limitazioni possano vanificare in concreto la normativa. Né appaiono adeguate a garantire efficacia alla riforma le previsioni dei commi 4 e 5, che richiamano i principi di accesso parziale e differimento dell’accesso in luogo del radicale diniego.
Proprio allo scopo di mitigare il rischio di ridurre in concreto l’efficacia della riforma, il legislatore ha attribuito all’ANAC (d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali e sentita la Conferenza Unificata Stato-Regioni-Autonomie Locali) il compito di definire in maniera più puntuale, con apposite linee guida, le esclusioni e i limiti all’accesso civico.
E tra i vari motivi di esclusione del diritto di accesso civico – per la cui analisi sarà necessario attendere le linee guida dell'ANAC (previste entro il prossimo dicembre) una particolare attenzione va posta le cause connesse alla protezione dei dati personali. Il tema della "trasparenza" necessita infatti di un approccio equilibrato per evitare che i diritti fondamentali alla riservatezza e alla protezione dei dati personali, nonché la dignità dell'individuo possano essere pregiudicati da una diffusione indiscriminata di documenti riportanti dati personali.
Ma il bilanciamento tra trasparenza e privacy operato dalla novella del 2016, non è stato ritenuto soddisfacente dal Garante Privacy che, nel parere espresso sullo schema di decreto, evidenzia, in linea generale, il mancato rispetto dei principi di proporzionalità e finalità che ruotano attorno al diritto alla tutela dei dati personali.
Tale necessità di bilanciamento si era peraltro già presentata con la disciplina del 2013, tanto da indurre il Garante ad emanare specifiche linee guida dirette a individuare, in un quadro unitario, le opportune cautele da porre in essere ogni qualvolta soggetti pubblici e altri enti obbligati effettuino attività di diffusione di dati personali sui propri siti web per finalità di trasparenza o pubblicità dell’azione amministrativa.
L’Autorità garante ritiene ora amplificate le criticità già evidenziate con riguardo alla disciplina del 2013. Così ad esempio per la previsione di riutilizzabilità (artt. 3 e 7): diritto che viene ora riconosciuto nei confronti di tutti i dati e documenti oggetto di accesso civico (e non solo di quelli oggetto di obbligo di pubblicazione).
Le perplessità dell’Autorità Garante riguardano anche l’assenza della motivazione nella richiesta di accesso civico, sia in ordine alla violazione del principio di finalità, sia in quanto costituirebbe il parametro necessario ad assicurare all’ente pubblico la possibilità di valutare contrapposti diritti/interessi. Più precisamente, tale assenza, potrebbe determinare una eccessiva rigidità interpretativa, e quindi un generale rigetto delle richieste (depauperando così di ogni utilità lo strumento dell'accesso civico), oppure, al contrario, una ingiustificata dilatazione del concetto di trasparenza, portando al rilascio di dati e documenti senza un ragionevole criterio selettivo. Da ciò consegue la generale necessità di oscurare i dati personali di terzi in sede di accoglimento di un’istanza di accesso civico ex art. 5 2^ comma, potendo ritenersi legittima la comunicazione di detti dati personali solo qualora sia stato possibile accertare la prevalenza dell'interesse perseguito dall'accesso rispetto al diritto alla protezione dei dati personali.
Altro aspetto su cui il Garante si sofferma riguarda l’indicizzazione dei dati tramite i motori di ricerca (art. 9 comma 1 d. lgs. 33/2013).
Osserva il Garante come, per il principio di proporzionalità, sarebbe necessario graduare le modalità di reperibilità delle informazioni tramite i motori di ricerca, non potendo ritenersi, ad esempio, legittima l’indicizzazione di redditi dei dirigenti, di dati personali dei beneficiari di sovvenzioni e aiuti sopra i mille euro. Si osserva, cioè, che se l'amministrazione deve essere una casa di vetro, è pur vero che i suoi abitanti devono comunque rimanere vestiti (in altre parole, la trasparenza amministrativa non può tradursi in un diritto alla (mera) gogna per le persone).
Le proposte di modifica suggerite dal Garante non sono state però accolte dal legislatore. Peraltro, anche dopo l’entrata in vigore della riforma del 2016, si confermano valide le prescrizioni contenute nelle linee guida emanate nel 2014: il provvedimento del Garante delinea infatti un approccio “privacy by default” che porta anzitutto a dover valutare il “cosa” rendere pubblico nonché il “come” pubblicare questi dati, in applicazione dei principi sul “diritto all’oblio” scaturenti dalla sentenza Corte di Giustizia Europea del 13 maggio 2014, richiamati nelle linee guida dell’Autorità Garante ed ora espressamente disciplinati con il nuovo Regolamento Comunitario.
Indirizzi più puntuali, per il doveroso bilanciamento dei diritti di accesso civico/tutela privacy si presume verranno formalizzati attraverso le future linee guida, sopra citate.
La trasparenza a “costo zero”
Rispetto al testo risultante dal primo schema di decreto reso pubblico sul web il Freedom of information Act italiano risulta ampiamente migliorato: è stato eliminato il silenzio-diniego; prescritta la motivazione al rigetto dell’istanza di accesso civico; razionalizzate le eccezioni; sancita la gratuità del servizio (salvo gli eventuali costi di riproduzione su supporti materiali); introdotto il ricorso stragiudiziale, preliminare all’eventuale ricorso al TAR; eliminato l’obbligo di identificare chiaramente i documenti oggetto di accesso.
Ma a queste luci della riforma si contrappongono anche alcune ombre.
Anzitutto la previsione della cd. softlaw: si delega l’Autorità Nazionale Anticorruzione ad emanare, d'intesa con il Garante Privacy (di cui già conosciamo le posizioni restrittive nei confronti di una disclosure potenzialmente invasiva della sfera privata), le linee guida dirette a fornire indicazioni operative alle PA nell’applicazione del nuovo art. 5 bis.
Inoltre, la verifica di eventuali lesioni di interessi coinvolti presuppone che l’analisi venga effettuata da personale competente: da qui la necessità di specifici corsi formativi per i pubblici dipendenti.
Ancora: i tempi per istruire le istanze di accesso si sommano a quelli necessari al disbrigo delle pratiche amministrative ordinarie: da qui il rischio che, a parità di personale si consolidino prassi dirette a negare l'accesso civico sulla base di una generica motivazione di ricorrenza di una delle fattispecie previste ex lege, senza procedere a una verifica in concreto.
La probabilità che tali rischi si concretizzino è confermata dalla previsione dell’art. 44 del D. Lgs. 97/2016, che così dispone: “Dall'attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Le amministrazioni interessate provvedono agli adempimenti di cui al presente decreto con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.”
Gli obblighi normativi di invarianza finanziaria e contenimento dei costi si scontrano poi anche con la previsione della comunicazione a eventuali controinteressati individuati dall’amministrazione, attraverso raccomandata A/R (art. 5 comma 5).
Per questo, una normativa basata sul dogma della ‘‘trasparenza a costo zero’’, (divenuto ormai il mantra della disciplina italiana in materia) non può che metterne in dubbio la sua stessa efficacia: detto ciò, è comunque fuor di dubbio che le recenti modifiche introdotte al d. lgs. n. 33/2013, costituiscano un concreto, importante, passo verso quel cambiamento organizzativo e culturale, indispensabile alla pubblica amministrazione italiana, per divenire amministrazione realmente digitale.
per l'immagine: http://tech.fanpage.it/ecco-il-testo-del-freedom-of-information-act-la-legge-sulla-trasparenza-della-pa/
L’impostazione del D. Lgs. 33/2013, basato sulla staticità e su una notevole quantità di obblighi di pubblicazione, senza diversificarne situazioni e modalità di attuazione - anche con riguardo alle competenze e alla dimensione organizzativa degli enti - ha poi reso evidente la difficoltà a cui molti enti pubblici sarebbero incorsi nell'attuare concretamente la normativa, tanto da far parlare qualche autore, di “propensione del legislatore a scaricare su amministrazioni non attrezzate compiti di pianificazione, vigilanza e attuazione molto gravosi, imputando loro la responsabilità di eventuali inadempimenti” .
La disciplina del 2013 ha certamente innovato la materia con l'introduzione dell'“accesso civico”: istituto con cui si è inteso superare l’architettura giuridica del diritto di accesso agli atti ex L. 241/90, ma che assume ancora una funzione piuttosto limitata: il diritto di accesso del 2013 è infatti circoscritto ai soli documenti, dati e informazioni oggetto di specifico obbligo di pubblicazione e - soprattutto - non si configura come diritto autonomo: il punto di partenza del d. lgs. n. 33/2013 - prima della novella - non è il “right to know” del privato, ma l’obbligo dell’amministrazione, che costituisce anche il limite del diritto alla conoscenza: la sua è infatti una funzione prevalentemente sanzionatoria nei confronti della pubblica amministrazione inadempiente.
Il percorso verso il FOIA italiano
L’ulteriore evoluzione del modello di trasparenza amministrativa italiana è segnata ora dal Decreto legislativo n. 97/2016 adottato in attuazione della legge delega 7 agosto 2015, n. 124 (cd. legge Madia): un decreto che, nella sua prima stesura, non aveva ricevuto il sostegno del mondo giuridico e dell’associazionismo nato attorno ai temi della trasparenza amministrativa e del FOIA (che con lo schema di decreto si dichiarava voler istituire) e per questo, anche a seguito delle sollecitazioni provenienti dalla società civile (ricordiamo, per tutti, l’iniziativa Foia4italy), è stato oggetto di successivi ripensamenti, in ottica FOIA, con l’obiettivo di garantire un vero e proprio “diritto a conoscere” nei confronti delle istituzioni.
Se le direttrici che hanno ispirato la riforma sono risultate fin da subito pienamente condivisibili stante la “riconsiderazione, alla luce del duplice prisma dell’innovazione tecnologica e della trasparenza, delle politiche di semplificazione, già centrali nelle riforme amministrative dello scorso secolo ma mai sinora pienamente soddisfacenti”, l'analisi più puntuale della nuova disciplina pone invece il fianco ad alcune critiche.
Certamente positivo è risultato essere il concetto di accessibilità totale che, in linea con la legge delega, supera ora i confini delle “informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività” per estendersi a tutti i “dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni” (In senso contrario, v. parere del Garante Privacy sullo schema di decreto che evidenzia come l’accessibilità non possa definirsi “totale”).
Anche il fine perseguito viene rivisitato e ampliato per essere allineato ai fini tipici del FOIA dei paesi anglosassoni: accountability, partecipation e legitimacy.
In tale ottica, la trasparenza/accessibilità totale è infatti ora volta a:
- tutelare i diritti dei cittadini
- promuovere la partecipazione degli interessati all'attività amministrativa
- favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche.
A ciò consegue la libertà “di chiunque ad accedere ai dati e documenti detenuti dalle PA” anche “ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione”: la nuova legge riassesta così il tiro rispetto alla disciplina del 2013: lo scopo, ora, non è più quello di ottenere la pubblicazione - omessa - di dati e documenti, bensì quello di garantire la generale libertà di accesso ai dati e documenti detenuti dall’amministrazione e viene realizzato – in primis - attraverso l’accesso civico ai dati e ai documenti (salvo i “limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti”) e, solo in subordine, attraverso l’imposizione degli obblighi di pubblicazione.
Ma v’è di più.
Con la modifica apportata all’art. 3 del d. lgs. n. 33, il legislatore del 2016 estende il diritto alla conoscibilità e diritto al riuso a tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di accesso civico.
Il cambio di prospettiva è netto: viene ora rovesciato quel rapporto (obbligo di pubblicazione/diritto di accedere a dati e documenti) che caratterizzava la disciplina del 2013 e la contrapponeva ai modelli propri del FOIA; e viene altresì generalizzato il diritto alla fruizione gratuita, all’utilizzo e riutilizzo (prima circoscritto a ciò che era oggetto di pubblicazione sui siti istituzionale) e l’istituto dell’accesso civico assume una ben diversa configurazione.
Con il (nuovo) comma 2 dell’art. 5 d.lgs. 33/2013, l'istituto dell'accesso civico - non più inteso come sanzione per la mancata osservanza degli obblighi di trasparenza - viene delineato quale vero e proprio diritto del cittadino ad accedere - prescindendo da qualsiasi valutazione inerente la legittimazione attiva – a tutti i dati, documenti e informazioni in possesso della PA (anche al di fuori degli obblighi di pubblicazione), seppur nel rispetto dei limiti normativi previsti.
La nuova formulazione dell'art. 5 2^ comma, rende così evidente il cambiamento di prospettiva operato dal legislatore, che riconosce ora all'accesso civico la portata di un diritto azionabile da ogni singolo cittadino senza necessità di motivare l’istanza né provare il rapporto intercorrente tra esigenze del singolo e atto che si chiede di conoscere.
Inoltre, tale diritto, riguarda la conoscenza di tutti i dati e documenti in possesso della PA fatti salvi i casi di esclusione previsti ex lege, come già accade nei sistemi di common law che disciplinano il FOIA.
Accesso civico e tutela dei dati personali: la ricerca di un bilanciamento
Il nuovo art. 5 bis nel prevedere una serie di limiti e cause di esclusione, statuisce che il diritto di accesso civico non è illimitato. E da più parti è stata espressa la preoccupazione – ad iniziare dal Consiglio di Stato - di come ampiezza e scarsa puntualità della lista di eccezioni e limitazioni possano vanificare in concreto la normativa. Né appaiono adeguate a garantire efficacia alla riforma le previsioni dei commi 4 e 5, che richiamano i principi di accesso parziale e differimento dell’accesso in luogo del radicale diniego.
Proprio allo scopo di mitigare il rischio di ridurre in concreto l’efficacia della riforma, il legislatore ha attribuito all’ANAC (d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali e sentita la Conferenza Unificata Stato-Regioni-Autonomie Locali) il compito di definire in maniera più puntuale, con apposite linee guida, le esclusioni e i limiti all’accesso civico.
E tra i vari motivi di esclusione del diritto di accesso civico – per la cui analisi sarà necessario attendere le linee guida dell'ANAC (previste entro il prossimo dicembre) una particolare attenzione va posta le cause connesse alla protezione dei dati personali. Il tema della "trasparenza" necessita infatti di un approccio equilibrato per evitare che i diritti fondamentali alla riservatezza e alla protezione dei dati personali, nonché la dignità dell'individuo possano essere pregiudicati da una diffusione indiscriminata di documenti riportanti dati personali.
Ma il bilanciamento tra trasparenza e privacy operato dalla novella del 2016, non è stato ritenuto soddisfacente dal Garante Privacy che, nel parere espresso sullo schema di decreto, evidenzia, in linea generale, il mancato rispetto dei principi di proporzionalità e finalità che ruotano attorno al diritto alla tutela dei dati personali.
Tale necessità di bilanciamento si era peraltro già presentata con la disciplina del 2013, tanto da indurre il Garante ad emanare specifiche linee guida dirette a individuare, in un quadro unitario, le opportune cautele da porre in essere ogni qualvolta soggetti pubblici e altri enti obbligati effettuino attività di diffusione di dati personali sui propri siti web per finalità di trasparenza o pubblicità dell’azione amministrativa.
L’Autorità garante ritiene ora amplificate le criticità già evidenziate con riguardo alla disciplina del 2013. Così ad esempio per la previsione di riutilizzabilità (artt. 3 e 7): diritto che viene ora riconosciuto nei confronti di tutti i dati e documenti oggetto di accesso civico (e non solo di quelli oggetto di obbligo di pubblicazione).
Le perplessità dell’Autorità Garante riguardano anche l’assenza della motivazione nella richiesta di accesso civico, sia in ordine alla violazione del principio di finalità, sia in quanto costituirebbe il parametro necessario ad assicurare all’ente pubblico la possibilità di valutare contrapposti diritti/interessi. Più precisamente, tale assenza, potrebbe determinare una eccessiva rigidità interpretativa, e quindi un generale rigetto delle richieste (depauperando così di ogni utilità lo strumento dell'accesso civico), oppure, al contrario, una ingiustificata dilatazione del concetto di trasparenza, portando al rilascio di dati e documenti senza un ragionevole criterio selettivo. Da ciò consegue la generale necessità di oscurare i dati personali di terzi in sede di accoglimento di un’istanza di accesso civico ex art. 5 2^ comma, potendo ritenersi legittima la comunicazione di detti dati personali solo qualora sia stato possibile accertare la prevalenza dell'interesse perseguito dall'accesso rispetto al diritto alla protezione dei dati personali.
Altro aspetto su cui il Garante si sofferma riguarda l’indicizzazione dei dati tramite i motori di ricerca (art. 9 comma 1 d. lgs. 33/2013).
Osserva il Garante come, per il principio di proporzionalità, sarebbe necessario graduare le modalità di reperibilità delle informazioni tramite i motori di ricerca, non potendo ritenersi, ad esempio, legittima l’indicizzazione di redditi dei dirigenti, di dati personali dei beneficiari di sovvenzioni e aiuti sopra i mille euro. Si osserva, cioè, che se l'amministrazione deve essere una casa di vetro, è pur vero che i suoi abitanti devono comunque rimanere vestiti (in altre parole, la trasparenza amministrativa non può tradursi in un diritto alla (mera) gogna per le persone).
Le proposte di modifica suggerite dal Garante non sono state però accolte dal legislatore. Peraltro, anche dopo l’entrata in vigore della riforma del 2016, si confermano valide le prescrizioni contenute nelle linee guida emanate nel 2014: il provvedimento del Garante delinea infatti un approccio “privacy by default” che porta anzitutto a dover valutare il “cosa” rendere pubblico nonché il “come” pubblicare questi dati, in applicazione dei principi sul “diritto all’oblio” scaturenti dalla sentenza Corte di Giustizia Europea del 13 maggio 2014, richiamati nelle linee guida dell’Autorità Garante ed ora espressamente disciplinati con il nuovo Regolamento Comunitario.
Indirizzi più puntuali, per il doveroso bilanciamento dei diritti di accesso civico/tutela privacy si presume verranno formalizzati attraverso le future linee guida, sopra citate.
La trasparenza a “costo zero”
Rispetto al testo risultante dal primo schema di decreto reso pubblico sul web il Freedom of information Act italiano risulta ampiamente migliorato: è stato eliminato il silenzio-diniego; prescritta la motivazione al rigetto dell’istanza di accesso civico; razionalizzate le eccezioni; sancita la gratuità del servizio (salvo gli eventuali costi di riproduzione su supporti materiali); introdotto il ricorso stragiudiziale, preliminare all’eventuale ricorso al TAR; eliminato l’obbligo di identificare chiaramente i documenti oggetto di accesso.
Ma a queste luci della riforma si contrappongono anche alcune ombre.
Anzitutto la previsione della cd. softlaw: si delega l’Autorità Nazionale Anticorruzione ad emanare, d'intesa con il Garante Privacy (di cui già conosciamo le posizioni restrittive nei confronti di una disclosure potenzialmente invasiva della sfera privata), le linee guida dirette a fornire indicazioni operative alle PA nell’applicazione del nuovo art. 5 bis.
Inoltre, la verifica di eventuali lesioni di interessi coinvolti presuppone che l’analisi venga effettuata da personale competente: da qui la necessità di specifici corsi formativi per i pubblici dipendenti.
Ancora: i tempi per istruire le istanze di accesso si sommano a quelli necessari al disbrigo delle pratiche amministrative ordinarie: da qui il rischio che, a parità di personale si consolidino prassi dirette a negare l'accesso civico sulla base di una generica motivazione di ricorrenza di una delle fattispecie previste ex lege, senza procedere a una verifica in concreto.
La probabilità che tali rischi si concretizzino è confermata dalla previsione dell’art. 44 del D. Lgs. 97/2016, che così dispone: “Dall'attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Le amministrazioni interessate provvedono agli adempimenti di cui al presente decreto con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.”
Gli obblighi normativi di invarianza finanziaria e contenimento dei costi si scontrano poi anche con la previsione della comunicazione a eventuali controinteressati individuati dall’amministrazione, attraverso raccomandata A/R (art. 5 comma 5).
Per questo, una normativa basata sul dogma della ‘‘trasparenza a costo zero’’, (divenuto ormai il mantra della disciplina italiana in materia) non può che metterne in dubbio la sua stessa efficacia: detto ciò, è comunque fuor di dubbio che le recenti modifiche introdotte al d. lgs. n. 33/2013, costituiscano un concreto, importante, passo verso quel cambiamento organizzativo e culturale, indispensabile alla pubblica amministrazione italiana, per divenire amministrazione realmente digitale.
per l'immagine: http://tech.fanpage.it/ecco-il-testo-del-freedom-of-information-act-la-legge-sulla-trasparenza-della-pa/
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