mercoledì 10 dicembre 2008

Un pensiero a un amico ... un altro al mondo

Vi è mai capitato di vivere il disagio di chi si trova in un luogo che non sente suo? A me qualche volta. Sarà perché quest'anno il natale sarà friulano..! Oggi posto uno scritto di un mio caro amico. Amico di penna, visto che ci conosciamo solo per via epistolare... ma mi pare di conoscerlo da sempre....Ma vi è di più! Posto uno scritto in una "lingua minoritaria" che non abbisogna dei contributi regionali per rivivere, né ha bisogno di trovare spazio in progetti scolastici. Molti dei miei amici lettori non decifreranno... saranno gli eletti a riuscire a interpretarne il senso. Un consiglio: avete presente la canzone The wall o Michele, o altre grandi canzoni che cantavamo da giovani, spesso senza conoscere il significato delle parole? Ecco ... mettetevi in quella dimensione. Per parte mia ho solo inserito alcuni accenti per facilitarne la lettura ....

P.S. La poesia "Natali" di Lorenzo Peritore ha vinto il primo premio della sezione "Poesia dialettale" del concorso letterario Duerre Roma Ravanusa.

Un augurio a tutti.


N A T A L I


Dicembri ormai è vicìnu, Natali stà arrivannu

e tutti quanti i genti ni stammu priparànnu.

S’accumèncinu addumàri tanti luci colorati

supra l’àrbula, i barcùna, ni vitrini e mmenzu i strati.

Caminànnu strati strati para tutta nattra cosa

e a genti ca si scontra si dimostra ciò affettuosa.

Ni sti festi o me paìsi pi stratuzzi e pi vanèddi

si sona a nannaredda davanti e fiureddi,

e intra n’atmosfera ca sapa di gioia e d’amuri

aspittàmmu tutti quanti a nascita du Signuri.

Ma pinsànnu ad o motivu pi cui vinna supra a terra,

a me menti a corpu curra ni paìsi unni c’è a guerra.

Se venìri na terra “Natali” vena a diri,

pirchì c’è tanta genti ca di guerra hava a muriri?

Quannu ha arrivàri u iornu ca sti guerri hannu a cissàri

e u Natali in santa paci s’ha putìri festeggiàri?

Pi chist’annu ormai mi para ca nutìzi unn’hannu datu

e pi chissu ni sti festi ia mi sentu allammìcatu.

Pensu e nostri piccìliddi ca pi festi di Natali

a scola su in vacanza e àrricìvinu i rìali….

….quannu tanti nnuccintuzzidi dill’attri cuntinenti,

mòrinu sutta i bummi e co' campa unn’hava nenti.

E capi di guverni ca ni manu hannu u putìri

cu sti versi cocchi cosa ia cià vogliu propriu diri :

Ma pirchì unn’accuminciàti tutti quanti arraggiùnari,

pi circàri d’appaciàri e finirla di sparari?

Se pi l’annu c’ha viniri vi mpignati pi davèru

quannu arriva arrè Natali u festeggia u munnu interu.


lunedì 8 dicembre 2008

Il Bilancio partecipativo: la sfida del secolo


La città di Udine ha concluso in questi giorni la sua prima esperienza di bilancio partecipativo: un progetto sperimentale che si è sviluppato nell'arco di pochi mesi, attraverso assemblee pubbliche di quartiere, dove l'Amministrazione Comunale ne è stata interlocutore squisitamente tecnico e accompagnatrice diretta del processo.
Quella udinese non è la prima esperienza italiana di Bilancio Partecipativo. I processi di partecipazione popolare, partiti già da qualche tempo, stanno ora assumendo anche in Italia dimensioni interessanti.
Il fatto che tali esperienze si sviluppino in un sistema di governo basato sulla democrazia rappresentativa induce a chiederci se e in che termini l'ampia formula di democrazia diretta possa convivere in questo sistema.
In questa prospettiva è bene chiarire come fin dall’origine del costituzionalismo moderno,l’esercizio “diretto” della sovranità si risolveva “nel deliberare, in regime di compresenza fisica dei consociati - sulla piazza pubblica”, senza la partecipazione di intermediari che si potessero frapporre fra il decisore e la decisione.
Al contempo tra la democrazia e il regime rappresentativo, si è da sempre tracciata una nettissima linea di demarcazione, diretta a chiarire la radicale differenza che le separa.
Ma, se il concetto di democrazia diretta, è ancora oggi quello dei classici, (cioè quello del “popolo adunato”), è pur vero che nelle società complesse, ogni tecnica decisionale comporta, pur sempre (oggi più che mai) una mediazione. Nelle società pluralistiche diviene infatti inevitabile una interposizione fra il popolo e la decisione politica, anche quando quella decisione viene imputata allo stesso popolo e ad una sua “diretta” manifestazione di volontà. La realtà dei fatti dimostra come l’opinione pubblica si forma pur sempre e anzitutto attraverso la mediazione dell’attività di partiti e gruppi, e, sopratutto, attraverso i mezzi di informazione che, spesse volte, prevaricano l'ideologia degli stessi gruppi e partiti politici (più deboli).
Per tutto ciò, allorchè si discuta di processi di Bilancio Partecipativo, si dovrebbe più correttamente utilizzare il termine di democrazia partecipativa, pur consapevoli che il Bilancio partecipativo presenta connotati propri e specifici che vanno ben oltre il significato della partecipazione degli istituti costituzionali del referendum abrogativo e di partecipazione popolare.

Non vi è dubbio peraltro che simili processi partecipativi siano nati dall'esigenza di affrontare criticità proprie della democrazia rappresentativa che, ai nostri fini, si possono riassumere in una duplicità di fattori:

1) - l'ampliarsi del principio di sussidiaretà.
Una sorta di invito allo Stato a non intervenire ogni qualvolta i cittadini e loro aggregazioni sociali (famiglia, associazioni ed altri "corpi intermedi", incluse le istituzioni locali) possono ‘fare da soli’. Il principio di sussidiarietà ha in sostanza innescato una catena di de-responsabilizzazioni progressive, con caratteristiche fortemente asimmetriche: infatti nell'epoca caratterizzata dal fenomeno della globalizzazione dei problemi viviamo una sempre più incisiva "localizzazione" delle soluzioni, che caricano le amministrazioni locali della responsabilità delle scelte (ma a cui, peraltro, non seguono adeguati trasferimenti di risorse, indispensabili per farvi fronte).
Questa crescita del decisionismo istituzionale locale, avviato con l'era dell'elezione diretta dei sindaci e della dimunizione di potere dei consigli comunali, è andata sempre più coniugando una creazione di spazi di partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni pubbliche.
Il coinvolgimento degli abitanti nelle scelte pubbliche diviene così quasi indispensabile sopratutto per ricostruire una fiducia dei cittadini nella politica, che possa darle ‘sostenibilità’ davanti alle continue crisi di legittimazione che ha attraversato nell’ultimo trentennio.
La riforma poi del Titolo V della Costituzione (2001) – con tutte le sue molteplici contraddizioni – si inserisce in questo percorso di sussidiarietà, diretto a valorizzare l’autonomia degli enti locali e degli istituti di partecipazione popolare. Il nuovo testo dell’art. 118 prevde così nuovi modelli organizzativi e di relazione tra amministrazione e cittadini, fondati sulla comunicazione e sulla co-decisione.
Con ciò rafforzando quel concetto di partecipazione evidenziato fin dai primi articoli della Costituzione, in cui appare chiara la convergenza tra sovranità popolare, partecipazione effettiva, uguaglianza sostanziale e pluralismo.

2) - la crisi del sistema dei partiti politici.
Già Carlo Esposito, giurista e filosofo del secolo scorso, aveva avuto modo di affermare che se un partito invece di rappresentare una ideologia e tendere al bene comune rappresentasse le esigenze di un gruppo di pressione economico, sarebbe di fatto un gruppo di pressione mascherato, e sarebbe per questo da combattere, da espellere dal Parlamento, da denunciare come scandaloso”
Il maestro filoso e giurista del secolo scorso precisa, tra l'altro, che l’azione dei partiti sui Ministri e sul Governo è lecita, ma “da condannare quando sia determinata da privati interessi” : la proiezione pubblica del partito, in quanto strumento di raccordo tra Stato e società civile con l'esclusiva funzione pubblica di trasmettere la volontà sovrana del popolo, non è compatibile, per Esposito, con l’inquinamento della politica da parte degli interessi personali ed economici.

In questa prospettiva non vi è chi non veda come l'inquinamento della politica con interessi personali ed economici di parte abbia avviato ad una crisi del sistema che, fin dagli anni 90, ha amplificato il senso di diffidenza e di sfiducia del popolo sovrano che ha finito col riversarsi sulle istituzioni, nucleo e fondamento della democrazia rappresentativa.
Se quindi i partiti sono chiamati a assolvere a una “funzione basilare nella vita della nostra democrazia rappresentativa”, ecco che, la crisi che oggi essi vivono si traduce e confonde nella crisi stessa della democrazia rappresentativa: con la naturale conseguenza della necessità di ricerca di nuove soluzioni.

È negli anni ’60 che il tema della partecipazione entra con forza nel dibattito politico italiano; sono gli anni dei consigli di fabbrica, consigli scolastici ed esperienze di urbanistica partecipata che avviano, nel decennio successivo, un percorso di elaborazioni normative.
La crisi degli anni ’90 ha portato poi alla differenziazione degli statuti comunali, soprattutto dopo la nuova legge elettorale del 1993 istitutiva dell’elezione diretta dei sindaci; mentre il Testo Unico degli Enti Locali del 2000, ha rafforzato il ruolo delle istituzioni più vicine al cittadino. Da allora hanno iniziato a costituirsi strumenti specifici e adatti ai diversi contesti socioculturali locali, con l’obiettivo di trasformare la partecipazione da risorsa simbolica in risorsa strumentale.
In Italia, la conoscenza del tema del Bilancio Partecipativo è avvenuta nel 1998, grazie ad alcuni studi universitari e alla neonata rivista ‘Carta’.
Se è vero che, storicamente, l’approccio al Bilancio Partecipativo è risultato fin da subito estremamente politicizzato , è altrettanto vero che, oggi, lo stesso approccio appare più maturo, in quanto pensato e voluto quale strumento di relazione trilaterale tra amministrazioni, cittadinanza e apparato burocratico e, in ultima analisi, di miglioramento della gestione urbana.
Il Bilancio Partecipativo costituisce quindi un percorso importante all’interno di queste sperimentazioni anche in Italia, dove il dibattito si è sviluppato in parallelo a quello dei Bilanci Sociali (strumenti diretti a misurare gli effetti in termini sociali delle politiche pubbliche) e ha trovato un terreno fertile alla comprensione del suo ruolo di strumento di rinnovamento politico/pedagogico, diretto all’arricchimento dell’autoconsapevolezza e del senso civico di cittadino.

L'esperienza di Udine, favorita e anticipata, dalla partecipazione alla Rete 9^ del Progetto europeo UR-BAL e successivamente dalla decisione consiliare di associarsi alla Rete del Nuovo Municipio è centrata in particolare sull’idea di portare avanti un’autoeducazione alla democrazia della cittadinanza, attraverso forme di co-decisione tra abitanti ed istituzioni relativamente ai nuovi investimenti strategici per il territorio. In tal senso Udine ha promosso e realizzato un progetto - ancorché sperimentale - di vero e proprio Bilancio Partecipativo, da non confondere con il Bilancio partecipato, il cui approccio sostanziale è ben diverso e certamente più riduttivo e limitante.
Si tratta di un percorso di coinvolgimento della cittadinanza che presenta tutte le caratteristiche per tradursi in un percorso duraturo e strutturato dove i cittadini svolgono un ruolo attivo nella costruzione delle decisioni, e non certo una partecipazione quasi ‘passiva’.

In tale prospettiva, Udine assume il ruolo e la funzione di "apripista" nell'ambito dell'intero territorio regionale, dove il Bilancio partecipativo, assieme al Bilancio Sociale, sono ancora di là da venire.

venerdì 7 novembre 2008

Il treno di facebook


Gli italiani sono saliti sul treno di Facebook e le considerazioni di “esperti psicologi” si moltiplicano: giornalisti più o meno conosciuti hanno ricevuto certamente anche loro l’invito e-mail a iscriversi al network; ed ecco che, da bravi venditori di notizie, i media entrano nella loro fase bulimica “Facebook”. Insomma,l'attenzione dei lettori cresce e allora, a prescindere dal contesto, ogni occasione è buona per parlarne.
Ma quando parli al tuo lettore, che è pure iscritto a Facebook, e gli dici che è certamente affetto da qualche disordine della personalità, è difficile che tu giornalista o lei intervistata, possiate essere credibili.
E se poi, tra 1.860.000 utenti italiani di Facebook ci sono fior fior di giornalisti, professionisti, dirigenti d'azienda, docenti, studenti, casalinghe e aggiungeteci pure tutte le altre categorie professionali che volete ... dovremmo concludere che siamo tutti malati?
La domanda nasce spontanea a seguito della ormai famosa dichiarazione rilasciata ad AdnKronos dalla psicologa Paola Vinciguerra a proposito del “profilo tipico” dell’utente Facebook, uno dei social network più diffusi al mondo. In sostanza si afferma che non è un caso se Facebook abbia “contagiato in particolare la fascia tra i 30 e i 40 anni”: è proprio in questa fase della vita, infatti, che nasce il senso di vuoto e di solitudine, che contagia anche i cosiddetti vincenti.”
Insomma, per la Vinciguerra e per il suo amico psichiatra Tonimo Cantelmi, su Facebook ci sarebbero soprattutto persone sole, infelici, non più giovanissime, che aspirano a farsi pubblicità e a cercare nuove conquiste. Un profilo... direi triste e poco lusinghiero.
Andiamo per ordine.

Sostenere poi che l’utente tipico è un depresso... signori miei, ci vuole un bel coraggio! (o molta disinformazione...). Non pare infatti che la Vinciguerra si sia basata su ricerche ed analisi sull’argomento (ad oggi, infatti, non esistono) né che parli per esperienza diretta (non essendo essa stessa iscritta a facebook). Forse parla per esperienza professionale. Ma (ringraziando iddio!) non credo che il milione e ottocentosessatamila utenti facebook siano suoi clienti... né che lo siano in una percentuale e varietà tali da potersi considerare un valido campione...
Una rapidissima analisi della letteratura del settore dimostra invece il contrario.

Sintetizzando i contenuti della ricerca riportata dallo psicologo Bussolon, si riscontra:
1.L’unico tratto di personalità che può rappresentarsi nell’utente Facebook è l’estroversione. Gli introversi vanno meno su Facebook, gli estroversi di più.
2. Gli studenti universitari usano FB soprattutto per mantenere relazioni che già hanno, piuttosto che per trovare nuove relazioni (leggera eccezione per le matricole)
3. Gli studenti con bassa autostima e senso di soddisfazione personale possono migliorare il capitale sociale proprio con l’uso dei social network
3.L’appartenenza a gruppi di social network di impegno politico, sociale o culturale va di pari passo con un’effettiva attività dello stesso tipo nella vita personale.
Sta di fatto che è proprio il periodo universitario che stravolge, in termini di cambiamento, speranze e nuove relazioni, la vita di una persona. E’ poi ipotizzabile che l’uso dei social network cambi a seconda delle fasi della vita. E’ ancora più ragionevole ipotizzare che il popolo dei trentenni e quarantenni sia un popolo abbastanza giovane da tentare l’approccio a questi nuovi strumenti: E appassionarsene.

La domanda piuttosto è perché molte persone usano i social network quando esistono, e sono ben consolidati, già altri strumenti come i forum, i blog, i newsgroup. Di certo i social network rispetto agli altri strumenti assicurano una grande opportunità: quella di escludere le persone che non gradisci. Credo che questa sia la vera funzione inedita di Facebook come degli altri strumenti similari: quella di consentire di definire chi sono nostri amici e rivolgersi solo a costoro. Non a tutti: tagliando così chi non si vuole rendere partecipi delle nostre riflessioni o delle nostre attività in rete.
Un sito, un forum, sono visibili da chiunque. E qualche volta questo non è desiderabile.

Maurizio Boscarol definisce il social network una sorta di mailing list a gestione semplificata che si concentra sull’utente. Ognuno può decidere i propri contatti, comunicare solo con loro anziché con tutto il mondo. Ed essere trovato e contattato da persone interessate (cosa che con le tradizionali mailing list è meno probabile, dato che aumentano la visibilità del gestore, non dei partecipanti).

Non credo che Facebook sostituirà i blog pubblici, i wiki, i forum, e nemmeno le mailing list o i newsgroup. E’ semplicemnete un tipo di strumento che serve a cose diverse, destinato a convivere con l'arsenale di strumenti di cui già ci gioviamo.
E non per questo ci sentiremo tutti più depressi.

Ma v’è di più. Una ricerca di Giglietti, dell'Università di Urbino, ci racconta che i vari social network sono distribuiti in maniera differenziata nelle parti del mondo: il più diffuso in Italia è Badoo: sarà per strategia di comunicazione o per variabile culturale... sta di fatto che non vi è modo di capire come mai sia stato preso in considerazione proprio Facebook per definire “l’utente tipo” del network italiano...
Che siano solo quelli di Facebook i malati??? O piuttosto manca a questi professionisti della scrittura e della psicologia una vera e adeguata conoscenza di una realtà sociale in via di trasformazione?
Propendo per la seconda.
Certo è che questi risultati non supportano luoghi comuni ma, anzi, suggeriscono che Facebook sia uno strumento per mantenere e gestire il proprio capitale sociale, in particolare usato proprio dai più estroversi. Non dai timidi, insomma.

Ma in Italia, si sa, i luoghi comuni vanno sempre di moda

lunedì 22 settembre 2008

Il Burocrate (*)


E’ l’animale sociale per eccellenza. Nel senso che è l’unico essere legalmente autorizzato e istituzionalmente preposto ad amministrare i rapporti pubblici.
Di natura sedentaria e stanziale, il burocrate individua il suo habitat naturale nell’ufficio territoriale di appartenenza, un sito ben delimitato e facilmente dominabile nel quale si storicizza per decenni portando a compimento il suo ciclo vitale e biologico.
Qui, in osservanza e in conformità alla sua indole e al suo status, si fonde e si mimetizza armoniosamente con la sedia ergonomica ed entra in perfetta e gioiosa simbiosi con la scrivania multifunzionale.
Sapiente cultore del codicillo normativo, il burocrate respinge tutto ciò che non sia adeguatamente vidimato, bollato, protocollato, autenticato, e non esita a spedirti in umile pellegrinaggio da un ufficio ad un altro se sulla tua pratica manca una virgoletta, una lineetta o un puntino.
Avendo ricevuto in dono, all’atto dell’assunzione, la sacra coppa della calma serafica e il divino calice della flemma olimpica ben tollera le lungaggini parossistiche e le lentezze esasperanti e anzi, temendo possa derivargliene uno stress eccessivo, evita e aborrisce il disbrigo sollecito e la risoluzione rapida.
Nei rapporti con gli altri soggetti della sua specie è incline all’assoluto rispetto delle reciproche competenze e responsabilità. E perciò se la ricerca di un documento sepolto in una carpetta sepolta in uno scaffale a sua volta sepolto in un archivio rientra nelle mansioni di un altro burocrate è inappellabilmente a quell’altro che dovrete rivolgervi.
Generalmente il burocrate si procura le sostanze nutritive necessarie al proprio metabolismo attraverso l’assunzione quotidiana di provvedimenti normativi, circolari esecutive, decreti ministeriali, leggi regionali, gazzette ufficiali, disposizioni finali.
Qualora, poi, l’esecuzione operativa dei suoi compiti comporti uno spostamento dal suo ufficio ad uno collocato a qualche isolato di distanza, il nostro soggetto non vi adempie se non ricorrendo al veicolo della pubblica amministrazione e previa attribuzione di una adeguata indennità di rischio.

Inattaccabile, inossidabile e inespugnabile, il burocrate si amalgama compiutamente al suo sistema di automatismi procedurali e di formalismi impersonali e si defila con fiera indignazione di fronte a qualsivoglia tentativo di cambiamento, snellimento, alleggerimento, sburocratizzazionamento.

Fanaticamente rispettoso del lessico burocratese (quello che Calvino definisce “l’anti-lingua”), egli ti chiama “utente”, ti anagrafizza e ti normatizza, indi ti sevizia con interminabili e perverse compilazioni modulistiche.
Fortunato detentore dell’ormai chimerico e privilegiato “posto fisso”, ne difende ad oltranza l’inattaccabilità e l’integrità ricorrendo, all’uopo, a studiatissime contorsioni sindacali e a finissime acrobazie legali. Poiché il burocrate è l’esemplare rappresentativo di una organizzazione capillare che domina e regge la vita civile e sociale, per diventare cittadini attenti e consapevoli è di vitale importanza uniformarsi, istituzionalizzarsi, amalgamarsi, omogeneizzarsi a questo universo di timbri e carta da bollo. Nonché rassegnarsi e trovare un santo cui votarsi

(* questo post è una gentile concessione dell'insegnante Angela Mancuso)

domenica 14 settembre 2008

Quando il web va oltre il web

Quando il web va oltre il web

E’ capitato per caso: avevo solo postato in un blog e Andrea non sapevo nemmeno chi fosse.

Avevo appena ascoltato una canzone su Baldoni... e scopro che, in questa Italia sempre più qualunquista, qualcun altro ricorda ancora il suo nome....
Così, educatamente e in punta di piedi (come si conviene quando ti introduci in un ambiente che non conosci) mi permetto di rilevare che Papetti non è il primo né l’unico artista a mantenere vivo il ricordo di Enzo. Immediata la risposta di Andrea. Educata ed in punta di piedi: “è vero, il mio cd viene pubblicato ora, ma la canzone su Enzo è nata il giorno che ho appreso della sua uccisione, dopo una notte insonne”.

Credo che il miglior modo per descrivere Andrea Papetti sia farlo attraverso le sue canzoni: e chi meglio della Brigata Lolli è deputata a farlo? “Nelle sue canzoni” - dicono i tipi della Brigata - mescola minimalismi ed esperienze, speranze e sogni. Andrea osserva il mondo, ci si scontra e lo canta, in bilico tra illusioni e delusioni, con un'aria che ricorda vagamente il primo De Gregori, quello ventenne di Da Qui a Saigon.Insomma, un talento emergente che ama la letteratura; scrive poesie e le traduce in musica.
E riempie i nostri cuori delle sue emozioni: di rabbia e di dolore...
Si, perché Andrea ci parla di “un eroe che ha distrutto l’omertà con la sua voce e la sua mano”; Peppino Impastato. E non è un caso se chiude sempre i suoi concerti con “L’uomo della verità”, la canzone per Peppino. Andrea canta dell’uomo e della solitudine che lo circonda: lo fa in Inferno Baghdad con una forza tale che ci è difficile dimenticare. Enzo, uomo di pace, abbandonato da uno Stato lontano e disinteressato e da un Dio che lo ha dimenticato...

Andrea continua a lottare. “Mi batterò con tutte le mie forze per far conoscere a più persone la storia di Enzo. Oltre a questo posso fare ben poco.”
Sono queste le sue parole: caro Andrea, tutto questo lo chiami “poco”?

Bloggando per caso: così ho conosciuto Andrea.
Grazie, sig. Web!


venerdì 1 agosto 2008

Il web 2.0 serve alla Pubblica Amministrazione?

l web 2

Che cosa si racchiude nel termine Web 2.0? Tra chi ci vede la rivoluzione di Internet e chi invece ne nega l’esistenza, un dato è certo: il Web ha preso una nuova direzione; una nuova era di internet è iniziata e non passerà senza lasciare segno.

Per questo non credo sia intelligente ignorarla o non conoscerla, soprattutto quando il Web è il nostro strumento di lavoro o lo riteniamo comunque utile per la nostra attività. Credo invece che sia più opportuno essere pronti ed un po’ lungimiranti per cogliere appieno i benefici dell’innovazione anticipando il cambiamento e non subendolo.

Il Web 2.0 sta entrando con naturalezza nella nostra attività quotidiana sulla rete; probabilmente ne siamo già fruitori, anche se inconsapevolmente.

Il web 2.0 non è un software specifico né un marchio registrato, ma un insieme di approcci definiti “innovativi” nell’utilizzo del web: si tratta piuttosto di una nuova concezione tecnologica e filosofica del web che segna l’evoluzione del www (World Wide Web) da una serie di siti statici collegati tra loro a un ambiente “globale” nel quale software, banda larga e applicazioni multimediali offrono contenuti più ampi e si fondano su una stretta interazione fra gli utenti

Il punto che fa la differenza rispetto al passato è la partecipazione degli utenti che diventano autori: da un insieme di siti web si passa ad una vera e propria “rete di siti” in grado di interagire e di elaborare le informazioni in maniera collettiva, incoraggiando gli utenti a conferire valore aggiunto.

Il punto centrale del Web 2.0 è quindi la collaborazione e la condivisione delle informazioni, che si esprime in particolare nei suoi strumenti di comunicazione, quali i wiki e i blog, attraverso i quali, il modello “gerarchico” del sapere si trasforma in sapere condiviso: sono gli utenti a costruire insieme l'enciclopedia, a raggruppare liberamente e gratuitamente saperi e competenze diverse, mettendo tutto ciò al servizio degli altri utenti.

Risulta quindi chiaro che, in questo nuovo approccio, un ruolo fondamentale viene assunto dalla reciproca “fiducia” tra gli utenti co-sviluppatori; e risulta altrettanto importante la necessità di attivare strumenti di misurazione di questa fiducia, attraverso ad esempio feedback o “raccomandazioni”

I vecchi siti personali, ormai “fuori moda”, lasciano oggi il posto ai blog, più semplici nella realizzazione e gestione, più immediati nella comunicazione e più efficienti nella circolazione delle informazioni: la loro forza è data dalla costruzione dal basso (bottom up), da parte degli utenti e dal ribaltamento della concezione gerarchica del sapere.

Grazie ai tag (= parola chiave) scelti liberamente e condivisi dagli utenti il web viene categorizzato e la ricerca semplificata.

Anche la Pubblica Amministrazione ha compreso la rivoluzione e l’importanza del Web 2.0, per sviluppare quei fenomeni di condivisione, di ascolto e partecipazione che la stessa legge impone di realizzare.

Non è una novità che una delle maggiori criticità della pubblica amministrazione sia proprio la mancanza di dialogo sia all’interno delle strutture e livelli amministrativi sia rispetto al cittadino-utente.

Il cittadino esprime un unico grande bisogno: avere risposta chiara in tempi brevi. Questo significa necessità di dialogo e condivisione delle informazioni all’interno delle singole amministrazioni, ma anche necessità di dialogo ed interazione (scambio di conoscenze: informazioni, contenuti, ma anche competenze, soluzioni ed esperienze) fra istituzioni diverse. Obiettivi non facili, ma raggiungibili con un giusto utilizzo delle nuove tecnologie, con l’integrazione dei sistemi informativi e delle banche dati, senza mai dimenticare l’importanza delle metodologie di lavoro, delle abitudini e delle prassi.

Insomma, il Web 2.0 nella pubblica amministrazione non è un social network, ma è la possibilità di creare una rete tra uffici e amministrazioni del territorio per unificare standard e procedure di comunicazione e definire un linguaggio unico e condiviso.

E’ questo il cuore del concetto di comunicazione integrata nella pubblica amministrazione: l’informazione che diventa davvero utile solo quando la conoscenza di ciascuno si trasforma in sapere condiviso che viene poi, attraverso gli uffici comunicazione, girato verso l’esterno, creando una circolarità virtuosa che si autoalimenta e che avvia processi di riuso e benchmarking a vantaggio dell’intero sistema. Un processo capace di includere anche quegli operatori che, per diverse ragioni, sono esclusi dai percorsi di formazione e che possono così far parte di questo percorso di innovazione, modernizzazione e crescita delle strutture in cui essi lavorano.

Non credo però che possa esserci un ritorno effettivo in termini di servizi se il web 2.0 viene imposto dall’alto: è necessario un accompagnamento culturale. Gli sforzi progettuali innovativi si traducono in fallimenti se non sono sostenuti da dinamiche interne all'amministrazione dirette a “educare” i lavoratori al cambiamento, facendo conoscere e capire questi progetti per potersi adeguare al nuovo approccio con naturalezza e semplicità.

Molte amministrazioni pubbliche stanno oggi sperimentando, con modalità diverse il 2.0: a volte solo per immagine, altre volte con maggiore “sostanza”.

Ma una cosa è certa: anche il web pubblico sta cambiando.

sabato 26 luglio 2008

Dal pensiero federale di Cattaneo alle deformazioni leghiste

Cattaneo è oggi considerato il padre del federalismo italiano: contestava l'esistenza dei vari Stati italiani, respingeva l'idea di una federazione tra loro e non condivideva la geografia politica (ad es. proposta da Ferrari).
La sua proposta di “federazione” si sostanziava in un "patto tra i comuni" che costituiva il  presupposto per realizzare “l'unità nazionale”: il federalismo quindi, quale strumento ideale per realizzare una nazione unita,   naturale sintesi delle tradizioni e culture locali.. Cattaneo è contro il centralismo, non contro l'unità nazionale (da lui considerata invece esigenza fondamentale). Norberto Bobbio scrive che il federalismo di Cattaneo "finiva per essere presentato in modo da richiamare alla mente la dottrina (già del Mazzini) del comune e della nazione come i due termini dello stato italiano repubblicano democratico e unitario". In entrambi (Cattaneo e Mazzini) era palese la volontà di realizzare l'unità della Nazione. Cattaneo ripudia infatti il termine "federalismo", definendolo "parola guasta che significa disunione di ciò che è unito e non unione di ciò che è disunito” e gli preferisce quello di "unione federale" o "unione libera":  è un concetto di unione di ciò che era disunito, non certo il contrario.
Giuseppe Montanelli aveva evidenziato, poi, la somiglianza dei programmi dell'"unitario" Mazzini e del "federalista" Cattaneo: "Se l'unitarismo consiste a disfare gli Stati (allora) esistenti, ordinando l'Italia su due soli termini, Città e Nazione, Cattaneo è unitario quanto Mazzini. Se il federalismo consiste nel conservare la padronanza del municipio per tutti gli interessi municipali, Mazzini è federalista quanto Cattaneo”.
Detto questo, si ripropone con forza la domanda iniziale: può il pensiero leghista identificasi con il pensiero politico-filosofico di Cattaneo?
Vediamolo nei fatti:
• Carlo Cattaneo non era un secessionista;  la Lega (tra alti e bassi) è per la Secessione;
• Cattaneo non era regionalista, ma era attento alle dimensioni della tradizione comunale; l'approccio della Lega è per un regionalismo “federale”( più o meno esteso a seconda di come vanno le elezioni).
• Cattaneo pensava che civiltà fosse confronto di culture diverse ("Ricordiamo che tutti noi, popoli moderni dell'Europa, siamo figli di padri che furono in un dì, più o meno lontano, figli di barbari"); i leghisti, (tra tutti, Gianfranco Miglio), predicano una sorta dì "etnonazionalismo" delle piccole patrie in nome della salvaguardia di una presunta purezza (quasi superiorità) etnica della "padania" (vedasi ad es. Maroni con le norme sui ROM o Bossi con le parole sugli insegnanti del Sud ).
• L'unità della nazione era per Cattaneo il “bene primario” cui tendere: "Noi abbiano per fermo – scrisse - che l'Italia debba tenersi soprattutto all'unisono coll'Europa, e non accarezzare altro nazionale sentimento che quello di serbare un nobil posto nell'associazione scientifica dell'Europa e del mondo"; il pensiero filosofico di Bossi si riassume invece così: rinvio all'ottima ironia di Angela Mancuso...
Se Bossi è davvero convinto che tutto ciò coincida col, o prenda forma dal, pensiero di Cattaneo ... capisco il perchè dell'ennesima bocciatura del suo povero figliolo!

giovedì 1 maggio 2008

Parliamo di Bilancio Sociale

Dopo aver dedicato mesi di lavoro alla realizzazione del bilancio sociale del Comune di Udine, mi sono chiesta: ma la Pubblica Amministrazione ha davvero bisogno di una rendicontazione sociale?Insomma, perché un'amministrazione pubblica dovrebbe dimostrare il valore sociale del suo operato quando questo è intrinseco nella sua mission?Tenterò di affrontare l'argomento a modo mio .

Parto da un dato: il rapporto P.A. e cittadino sta attraversando un grande momento di difficoltà: chi lavora nella Pubblica Amministrazione vive la contraddizione di doversi confrontare con un cittadino sempre più attento e responsabile, attraverso strumenti che sono sempre meno adeguati a rispondere a questo diritto di cittadinanza.E voglio ammettere - semplicemente e senza polemica - che la Pubblica Amministrazione deve ancora affrontare e colmare una serie di deficit che sono vere e proprie resistenze per assicurare al cittadino la possibilità di "Valutare in maniera consapevole".

Ne elenco alcuni:
- un deficit di trasparenza: l’Ente Pubblico deve essere in grado di consentire ai propri cittadini di esercitare il diritto di conoscere - e la P.A. adempiere al dovere di far conoscere - le politiche, le strategie, gli obiettivi ed i programmi operativi dell'Ente. Tutto ciò va oltre alla pubblicità legale - imposta - dei provvedimenti e degli atti amministrativi;
- un deficit di misurazione dei risultati: la tendenza del sistema pubblico a verificare la corretta rilevazione contabile e misurare la quantità di servizio, a scapito della misurazione della qualità resa, non è stata ancora debellata.
- un deficit di accessibilità alle informazioni: che equivale a dire, deficit di comunicazione. Assolvere all’obbligo previsto dalla legge di pubblicare i provvedimenti o i propri bilanci economico-finanziari non è “comunicare” con il cittadino. Sfido chiunque a dimostrare che questa sia vera informazione.

Ora, se la definizione “bilancio sociale” è ormai di uso comune, non altrettanto diffusa è la consapevolezza di che cosa esso rappresenti concretamente per le pubbliche amministrazioni. Ci rincuora a questo proposito la recente Direttiva sulla rendicontazione sociale nelle amministrazioni pubbliche che indirizza gli enti ad assumere un documento di natura volontaria, che si aggiunge al bilancio economico-finanziario tradizionale, enunciando in maniera forte il principio che ogni ente pubblico ha il dovere di rendere conto a tutti i suoi interlocutori degli effetti dell’azione amministrativa, e riconoscendo nel bilancio sociale lo strumento capace di mostrare pubblicamente l’attività complessiva dell’ente con una panoramica non limitata ai soli aspetti di natura economico-finanziaria e patrimoniale, ma che rappresenta un quadro unitario dei vari aspetti della visione politica e sociale delle scelte effettuate, le risorse economiche a disposizione e i risultati conseguiti.

Il bilancio sociale è quindi uno strumento potenzialmente capace di individuare le aree di miglioramento del processo organizzativo dell’Ente e che possono riguardare:
a) l’ Amministrazione: una chiara esplicazione delle attività realizzate può far comprendere meglio la dimensione normativa del bilancio economico chiarendo, ad esempio, come una determinata posta contabile corrisponda all'erogazione di un preciso servizio, chiaramente individuabile dai cittadini.
b) la Comunicazione: il bilancio sociale diventa il principale strumento di relazione con i diversi stakeholders;
c) la Dimensione politica: le scelte e le azioni politiche vengono confrontate con gli obiettivi precedentemente prefissati.
d) l’Organizzazione: il bilancio sociale è uno strumento estremamente utile anche per una verifica dell’operato interno dal punto di vista dell’efficienza degli assetti organizzativi.
Concludo tentando di dare una risposta alla domanda iniziale, attraverso alcune considerazioni aggiuntive.

Personalmente ritengo che il valore aggiunto che il Bilancio Sociale può dare nel rapporto PA/cittadino è proporzionale alla capacità di dare a questo strumento la corretta dimensione di dialogo e di servizio, per renderlo un effettivo supporto alla consapevolezza e valutazione per il cittadino. Insomma non un volume vetrina – ma un vero e proprio strumento di comunicazione. E' un ribaltamento di visione e di filosofia, che deve essere condiviso da chi opera nel pubblico, e che proprio il Bilancio Sociale può collaborare a far crescere.
Inoltre l’operato “sociale” insito nelle attività della Pubblica Amministrazione è esso stesso l’elemento che legittima, anzi, che rende doverosa, la rendicontazione al cittadino
Se le strutture private hanno infatti bisogno di legittimarsi nei confronti dell'opinione pubblica, tentando di dimostrare quanto sono responsabili socialmente e quindi attente a produrre non solo valore per gli azionisti, ma anche valore sociale per la comunità, la struttura pubblica che è socialmente responsabile per definizione, ha la necessità di gestire questa sua "legittimità sociale". È anzi paradossale che, sebbene le attività delle Amministrazioni Pubbliche siano mosse da finalità essenzialmente sociali e di notevole impatto sulla comunità, non esistano strumenti per dar conto di questa profonda e permeante "socialità".

È proprio questo gap che il bilancio sociale può e deve contribuire a colmare.
Attendo i vostri commenti.

domenica 13 aprile 2008

si è conclusa la campagna elettorale

Di questa campagna elettorale si è detto molto; sopratutto, molti comunicatori l'hanno definita prevalentemente "noiosa". Forse per questo si è tentato di sopperire alla "noia" con notizie che i media hanno portato dentro le nostre case e hanno stimolato la nostra curiosità e (aggiungo) "bigottità": che mutande usano i nostri politici (cioé, ovviamente, le donne politiche! Siamo in Italia...!); quanto sesso fanno i nostri politici durante la campagna elettorale (abbiamo scoperto che qualcuno si astiene e qualcun'altro invece non demorde...; chi "la dà" a chi... e tante altre "chicche": tutte di questo genere.
Bene, ho avuto il piacere di seguire questa campagna elettorale. L'ho seguita nella città dove vivo, l'ho seguita via internet sui siti politici senza dimenticare i media "tradizionali", ho partecipato alle chat e ho postato commenti, mi sono confrontata con molti conoscenti ed amici.
Tirando un pò le somme di questa esperienza devo dire che la mia sensazione è quella di essermi trovata in una campagna elettorale diversa dal passato, e per questo, la ritengo, invece, stimolante.
Certo, abituati agli scontri, alle offese, ai litigi e alle urla dei vari leader (tutti contro tutti!), questo cambiamento ha spiazzato un pò tutti ...
Ma se la missione di un comunicatore è quella di farsi capire, allora questa campagna non può definirsi noiosa perché è mancato lo scontro dell'arroganza.
Penso invece che questa campagna elettorale abbia, piuttosto, riposizionato la politica verso concetti valoriali in passato dimenticati. O che almeno abbia tentato di farlo: per questo la definirei "democratica".
Dobbiamo considerare che questa campagna ha richiamato molti giovani nelle piazze e molti altri con internet; e non ricordo in passato una campagna dove leader politici abbiano "lavorato" così duramente per avvicinarsi e incontrare la gente: la politica è ormai consapevole della grave distanza con il cittadino elettore e per questo deve ritrovare il suo ruolo nelle strade e con le persone: l'Italia è stata attraversata a tappeto; le chat e videochat hanno preso piede e pure Yutube ha fatto la sua parte.
Quanto ai contenuti, si è detto, sono molto simili: certo, i problemi sono quelli; ma le soluzioni proposte non possono certo definirsi identiche, se non altro per aspetti ideologici, che pure non sono mancati.
Allora penso che quel sentimento di noia più volte richiamato, sia stato dato più dall'approccio che i media hanno voluto avere in questa campagna elettorale (se non c'è scontro non c'è notizia...) che non al pensiero effettivo degli italiani.
Forse, se si fosse parlato meno di mutande e desiderio sessuale, ce ne saremmo accorti tutti un pò di più.